L’etnia degli Ari

E siamo di nuovo per strada. Oggi non sembra una bella giornata. Tutto coperto. Pero’ il caldo non manca come al solito. Siamo vicino al lago Chamo e non possiamo fare a meno di andare a vedere la zona dove i coccodrilli fanno da padroni.

Prendiamo una piccola barca a motore che comincia a scorrere sull’acqua. Il cielo e’ minaccioso ma andiamo lo stesso. Al massimo ci bagnamo un po’. Attraversiamo zone pienissime di pellicani e marabu’ che ci ignorano totalmente anche se passiamo loro vicinissimi.

Vediamo a distanza anche degli ippopotami ma li’ e’ meglio non avvicinarsi. Sembrano tanto tranquilli e rilassati, quasi completamente immersi fino alle orecchie. Invece sono veramente aggressivi ed attaccano.

Andiamo oltre ed entriamo a motore spento in una insenatura stretta e lunga e subito vediamo qualche coccodrillo. Non qualche, in pochissimo tempo diversi coccodrilli si avvicinano alla barca. Compaiono solo gli occhi. Ma ci sono troppi occhi indiscreti in giro. Pregustano la colazione?

La guida subito raccomanda di stare attentissimi a quello che facciamo: “Non mettete per nessun motivo le braccia fuori dalla barca per fare le foto. I coccodrilli, attratti dal luccichio delle macchine fotografiche, possono saltare fuori dall’acqua ed afferrare il braccio trascinandovi in acqua. Vedete che possono saltare anche per due metri fuori dall’acqua. Sono enormi ma lo possono fare”. Sono veramente enormi. Lungo la riva ce n’e’ uno vicino che sta affiancato alla base di tre alberi.

Non riesco neanche a valutarne la lunghezza. Molto minaccioso guarda verso di noi e ad un tratto spalanca la bocca. Le dimensioni della testa e dei denti sono impressionanti. “Quando aprono la bocca vuol dire che assumono la posizione di difesa perche’ si sentono minacciati, pronti per attaccare”.

Ma mentre lo guardiamo non mi accorgo che tanti altri coccodrilli sono arrivati accanto i fianchi della barca. Ognuno di essi e’ piu’ lungo della barca stessa.

Sono troppo vicini: d’istinto mi sposto di colpo verso l’interno della barca. Ma non dovevo farlo. Vedo che anche loro cominciano a muoversi nervosamente. La guida mi rimprovera: “Non fare movimenti bruschi e non sporgerti!”.

Adesso non mi sento piu’ tanto a mio agio. Abbiamo piu’ coccodrilli su entrambi i fianchi della barca. Veramente troppo vicini. Perfetto per fare foto, ma non c’e’ la giusta attenzione. Con le teste ed i corpi alcuni si sono pure messi di traverso davanti la prua e bloccano completamente la possibilita’ di movimento. Siamo in una situazione di impasse, completamente attorniati.

Come si esce da questa situazione? Vedo la guida, comunque tranquilla, scambiare qualche parola con chi guida la barca, il quale pensa bene di andare sulla prua con un remo e comincia a battere sulle teste con piccoli colpi i coccodrilli che bloccano il passaggio.

Cosa fa? Così li fa arrabbiare… No. E’ come se stia comunicando con loro. Piano piano i coccodrilli si portano indietro aprendo un varco. Riusciamo a passare ma abbiamo visto abbastanza. E’ meglio andar via perche’ altri coccodrilli stanno arrivando e quello enorme adesso si sta avvicinando pure lui sempre a bocca aperta verso la nostra direzione. Non e’ un buon segno.

Forse li abbiamo infastiditi. Togliamo il disturbo. Ancora a motore spento e puntellando i remi sugli stessi corpi dei coccodrilli andiamo il piu’ velocemente possibile verso l’uscita dell’insenatura ed appena fuori viene riavviato il motore.

Ripassiamo accanto gli ippopotami, i pellicani ed i maribu’ e torniamo sulla terraferma.

Tante foto inimmaginabili, ma, a dire la verita’, anche un po’ di tensione.

Riprendiamo la strada sempre piena di gente che cammina ai margini con animali, sacchi, bidoni per trasportare acqua, legna.

Sicuramente da qualche parte c’e’ un mercato.

E dopo alcuni chilometri compare puntualmente il mercato, ma non uno qualunque. E’ quello di Key Afer che e’ il piu’ grande ed importante perche’ in esso confluiscono moltissime delle tribu’ della valle dell’Omo ed e’ possibile quindi vedere insieme le varie etnie con il loro modo tipico di vestire, di truccarsi e con i loro ornamenti costituiti da pelli, pietre, conchiglie, penne d’uccello.

Ed immancabili sempre tanti bimbi che ti prendono per mano. E in un angolo ci sono quelli che giocano con le galline tenendole attaccate con uno spago per una zampa .

Camminando arriviamo al villaggio degli Ari, una etnia particolarmente specializzata nelle attivita’ artigianali. Le donne costruiscono piatti di ceramica ed intrecciano cesti, mentre gli uomini sanno lavorare i metalli.

Qui ogni tribu’ cerca una sua specializzazione cosi’ al mercato, per loro particolarmente vicino, potra’ scambiare le proprie merci con quelle delle altre tribu’. In fondo e’ un modo reciproco di aiutarsi l’un l’altro.

Anche qui creano dei distillati con un distillatore primordiale in terracotta. Ci offrono un po’ di distillato. E’ fortissimo ma molto buono. Ma questa volta viene dalla distillazione del mais e non dal sorgo come le altre volte.

Sentiamo un odore particolare. Stanno preparando il loro pane tipico, l’injera, che ha una consistenza spugnosa ed un gusto un po’ acido. Si produce con un cereale particolare, il teff, che esiste soltanto in Africa.

Ma e’ buonissimo mangiato con i loro cibi piccantissimi. Perche’ in Etiopia il cibo e’ sempre terribilmente piccante e … si mangia tutto con le mani. Non esistono le posate.

Questo tipo particolare di pane, particolarmente flessibile e poroso, si utilizza per prendere il cibo dai piatti, che e’ sempre suddiviso in piccoli bocconi, e si passa poi nelle loro salse micidiali.

Quando hai finito di mangiare ti ritrovi con delle mani indescrivibilmente sporche ed unte, che devi correre a lavare nei lavandini che si trovano sempre lungo il corridoio di entrata dei locali. Oppure ti portano al tavolo una bacinella ed una brocca d’acqua con cui lavarti. Ma alla fine sei rimasto un po’ unto lo stesso.

In compenso hai sempre una bocca in fiamme. Pero’ devo dire che ho sempre digerito ovunque perfettamente tutto. Incredibile.

Ma torniamo alla preparazione del pane. Non sembra difficile. C’e’ una piastra rotonda sul fuoco ed una ragazza va versando con movimento circolare l’impasto di cereale e acqua abbastanza liquido.

Ricorda molto le nostre crepes. Appena l’impasto tocca la piastra comincia ad emettere una serie di bollicine ed il tutto si cuoce quasi subito. La parte del pane a contatto con la piastra e’ liscia mentre l’altro lato, quello delle bollicine, assume una consistenza spugnosa. E questa e’ la parte che assorbe i sapori quando lo immergi in una ciotola di salsa (piccante naturalmente).

Voglio provare anch’io come sempre. La ragazza mi porge il recipiente con l’impasto. Mi riesce a primo colpo anche se la forma non e’ proprio rotonda. Ho fatto la mia prima crepe africana.

L’assaggiamo. La ragazza fa cenno che va bene e sorride. Il sorriso: una costante di questa popolazione.

Una frotta di bambini ci accompagna come sempre alla jeep.

Questa sera non abbiamo capanne per dormire, ci aspettano delle tende sollevate dal terreno per isolarsi da insetti o altro. E che ci debbano essere qui molti insetti ce ne accorgiamo dai veli che ricoprono i letti dalla parte alta fino a terra.

Stanotte bisogna chiuderli bene altrimenti ci becchiamo qualche morso o puntura poco graditi mentre dormiamo. Non so come fare perche’ vedo che non sigillano proprio niente. Bah, speriamo bene.

Comunque domani la prima delle etnie guerriere ci aspetta.

Buona notte.

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